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16 Maggio 2024

Scuola e lavoro: così ho ripreso in mano la mia vita

Alessio, detenuto per un reato grave da quando era appena maggiorenne, ha affrontato un percorso formativo e di riabilitazione, che lo ha portato oggi ad avere una professione e una carriera universitaria ben avviata in economia. Le chiavi per cambiare? Fiducia, motivazione e sostegno da parte delle istituzioni

Ci sono delle volte in cui il carcere può essere davvero riabilitativo. Come nel caso di Alessio, ventisettenne entrato in una struttura penitenziaria poco meno di 10 anni fa per un reato grave, che oggi lavora con Hunters Group, società di ricerca e selezione di personale altamente qualificato, e che sta portando a termine una laurea in economia. L’accesso al mondo del lavoro può essere determinante per dare una seconda possibilità agli autori di reato: secondo i dati Cnel, su 18.654 detenuti che hanno avuto la possibilità di un inserimento professionale il numero di coloro che tornano a commettere un reato è al 2%, contro una media che sfiora il 70%. Occorre però qualcuno – un’azienda, le istituzioni, gli educatori e gli psicologi – che diano fiducia e che investano sulla persona, vedendola come tale, al di là della sua condizione di detenzione.

Alessio, da dove nasce la sua voglia di formarsi e lavorare?

Mi permetto di essere molto sincero e schietto: il mio percorso universitario è nato prettamente in carcere. La volontà di andare a scuola, prima, era ben poca. Quando ho commesso il reato avevo poco più di 18 anni e così sono praticamente cresciuto in tre strutture penitenziarie, la casa circondariale di Mantova, la casa di reclusione di Opera e Bollate. Vado a fare sensibilizzazione nelle scuole e una cosa che mi capita spesso di dire è che quando si compie un reato spesso si agisce d’istinto e non si considera che vengono coinvolte altre persone, come nel mio caso i miei familiari, la mia ex compagna e tutti coloro che avevo vicino. Quello che ho fatto ha causato un’enorme sofferenza ai miei genitori, che negli anni si sono chiesti come sia potuto accadere: hanno sempre cercato di trasmettermi i loro valori nel modo più equilibrato possibile. La scuola, quindi, per me è stata una leva di riscatto fin dall’inizio, per dare un segnale ai miei genitori: volevo dimostrare di star cercando di rimanere presente, nonostante la situazione in cui mi stavo trovando. Studiare mi ha permesso anche di uscire da una situazione deprimente, di aiutarmi e di permettermi di essere aiutato.

La scuola per me è stata una leva di riscatto fin dall’inizio

E qual è stato il suo percorso?

Prima ero in un istituto elettrotecnico meccanico, però purtroppo in carcere non c’erano laboratori di questo tipo, così mi sono iscritto a ragioneria, partendo dal terzo anno. Mi sono diplomato e nel frattempo ho deciso di aderire a un progetto universitario. Intanto ho sempre lavorato, perché chi ha un sostentamento economico vive una condizione carceraria diversa. Anche se gli stipendi si aggirano attorno ai 500 o 600 euro, ho sempre cercato di far collimare studio e lavoro, per mantenermi. Diciamo che il mio percorso universitario è stato un po’ come quello di un privatista: tu ti iscrivi agli esami, viene una tutor e c’è un operatore del carcere che si chiama “agente di rete”, che fa da comunicatore tra le due istituzioni. Non ci sono tempistiche o appelli da rispettare: ti portano il materiale, libri e appunti, e quando sei pronto prenoti l’esame, vai dentro una saletta con l’agente che fa da supervisore oppure, nel caso in cui la prova sia orale, ci si organizza per far venire il professore.

E poi è arrivato il suo attuale lavoro.

All’inizio facevo lavori manuali, facevo il manutentore. Poi sono stato preso in Hunters Group, che mi ha aiutato a venire a contatto con la vita fuori e a prepararmi a essa. Non ci sono particolari sconti, che tu sia detenuto o meno; sicuramente c’è una parte di introduzione formativa e anche strutturale, però poi bisogna impegnarsi. Una cosa stimolante che ho potuto vedere e percepire è che non mi hanno mai giudicato, ma non mi hanno mai facilitato troppo: mi hanno dato gli strumenti per affrontare i problemi nel momento in cui avessi una difficoltà. Questo, oggi, mi permette di essere – direi – una persona risoluta e soddisfatta: lavoro e studio mi danno la forza di andare avanti. Oggi ho anche la fortuna di avere una compagna, una persona alla quale voler bene e con cui condividere molto di me. Il lavoro ti butta nel mondo e ti permette di permeare nel tessuto sociale a 360 gradi.

Quindi lei ora passa del tempo al di fuori del carcere?

Mi sono stati riconosciuti due benefici graduali. Grazie all’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario posso svolgere la mia attività lavorativa all’esterno del carcere e, dal 2023, ho anche dei permessi premio, per un totale di 45 giorni di cui al massimo 12 o 13 consecutivi. Ho cambiato reparto all’interno dell’istituto, sono con altre persone che hanno un impiego e quindi siamo aperti tutto il giorno perché facciamo orari diversi. Ora il mio turno è dalle 9 alle 18, con un’ora di pausa pranzo, più il percorso di un’ora e mezza tra andata e ritorno. Devo seguire un itinerario definito e ho un paio di locali in cui mangiare; la sera torno a dormire in carcere, dove resto anche nei giorni di chiusura aziendale.

A lei il carcere ha dato una seconda possibilità. Come dovrebbero essere gli istituti penitenziari per essere davvero rieducativi e riabilitativi?

In primo luogo il direttore e le persone che lavorano al suo interno devono credere che il carcere abbia effettivamente questa funzione. Se questo viene meno, abbiamo già perso in partenza, abbiamo fallito come società e come istituzione. Fondamentali sono anche gli strumenti che l’istituto dovrebbe avere a disposizione: è vero che di fondi ce ne sono molti, ma di soldi ce ne sono pochi, nel senso che non vengono investiti o non vengano ripartiti in modo equo in tutte le carceri italiane. Se tu metti una persona in una struttura che ha già problemi a livello strutturale è normale che questa provi rabbia. È una situazione in cui la riabilitazione non può avvenire, perché non ci sono i presupposti. Poi c’è la questione del personale, che è sempre sotto organico e in difficoltà, perché non riesce ad avere nessuno che gli dia il cambio. Può capitare che un detenuto debba vedere la psicologa una volta alla settimana, ma la veda una volta ogni tre mesi perché ce n’è solo una per 350 persone e spesso questo rallenta anche gli iter per avere dei benefici. Se si sta male iniziano a subentrare delle dinamiche che rendono difficile il reinserimento. I ragazzi mi chiedono spesso come si sta in cella. Io rispondo: «Non vanno d’accordo moglie e marito, figurarsi stare in una piccola stanza con una persona che non conosci o in un cellone con altre 10 o 15 persone, con cui la convivenza è ancora più difficile perché è forzata».

Come si sente oggi sul lavoro?

Sono grato ad Hunters Group per aver “sfidato la sorte” e aver creduto in me. Ad aiutarmi è stata proprio la considerazione dell’amministratrice delegata, la dottoressa Joelle Gallesi, che ha avuto fiducia e ha guardato in me quelle che potevano essere le soft skill che mi aveva dato il mio percorso personale, anche difficile, con un impatto duro con la società. In azienda mi hanno dato forza e coraggio quando mi sentivo di partire da un punteggio di meno 150mila. Mi hanno fornito gli strumenti per farcela: all’inizio io ero veramente preoccupato, perché non sapevo nemmeno usare la posta elettronica. La prima volta che sono uscito, dopo otto anni e mezzo di carcere, non sapevo utilizzare un telefono. Da questo punto di vista le difficoltà sono state maggiori rispetto ad altri ragazzi della mia età; non per questo mi hanno tutelato, ma hanno creduto che potessi farcela. Oggi sono orgoglioso e non posso che essere riconoscente.

Noi un domani rientreremo comunque nella società ed è forse un po’ convenienza di tutti cercare di investire sul reinserimento, perché possiamo diventare una risorsa e un valore aggiunto

La fiducia quindi è un aspetto fondamentale della riabilitazione?

Certo. A essere del tutto sinceri, conta anche la struttura che hai alle spalle. Chi viene da Bollate, secondo le statistiche, ha un indice di recidiva intorno al 13 o al 17%, mentre negli altri istituti del 70% circa. Perché questo accade? Perché a Bollate non ci sono le celle chiuse tutti i giorni; magari c’è un poliziotto più arrabbiato degli altri, ma non c’è una provocazione generale, quindi la mente è un po’ più libera. C’è la possibilità di andare in palestra 12 ore al giorno, per fare un altro esempio. C’è stata anche una buona comunicazione tra il mio educatore e l’azienda, che hanno lavorato insieme per capire il mio profilo, quali fossero le dinamiche che mi hanno portato a fare l’errore che ho fatto in passato. C’è una cosa che io dico alle persone: «Noi un domani rientreremo comunque nella società ed è forse un po’ convenienza di tutti cercare di investire sul reinserimento, perché possiamo diventare una risorsa e un valore aggiunto. Se esco senza diploma, senza laurea, con un peso sulla coscienza cosa faccio, vado a spacciare? Perché da questo punto di vista il carcere è una buona scuola: il “narcos” non lo conosci in piazza o in giro, lo conosci in galera».

 

 

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