Lavoro: perché bisogna studiare sempre (di Nadia Anzani)
Intervista realizzata da: Nadia Anzani
Si chiama lifelong learning ed è il miglior investimento aziendale sul capitale umano. Una ricerca Deloitte spiega perché abbatte le barriere generazionali.
Prendete la pandemia, l’accelerazione della digitalizzazione nelle aziende, lo sdoganamento del lavoro a distanza e la conseguente esigenza nella maggior parte delle aziende di ritarare il business, riorganizzare gli uffici e adeguare le professionalità interne ai nuovi obiettivi. Mettete tutto in un frullatore e ne uscirà un succo di verità. Quale? Per restare competitivi sul mercato del lavoro l’unica soluzione è studiare per tutta la vita con l’intento di adeguarsi strada facendo alle rinnovate esigenze delle imprese e di conseguenza ai cambiamenti del mercato.
«In futuro il vero potere starà nella capacità di restare sempre studenti. Nella volontà di imparare costantemente cose nuove», avverte Travis Montaque, ceo della società di consulenza newyorkese Holler. Tendenza che viene evidenziata anche dalla ricerca 2020 Global Human Capital Trends firmata da Deloitte, per la quale in futuro, sul posto di lavoro, non saremo più identificati in categorie come Baby boomers, Generazione X o Millennials, ma dovremo trasformarci in Perennials, ovvero in persone che a qualsiasi età sono aggiornate su tutto, curiose ed empatiche. Insomma come diceva Steve Jobs in tempi non sospetti: «Stay hungry, stay foolish».
Lavoro e formazione: Italia fanalino di coda Ue
Ma quanta voglia abbiamo di uscire dalla comfort zone e di metterci in discussione con il lifelong learning? Poca. I dati Eurostat relativi alla formazione permanente (che comprende tutte le attività intraprese dalle persone nel corso della vita in modo formale e non formale, dopo la fine dell’istruzione iniziale, al fine di migliorare le conoscenze, le capacità e le competenze, in una prospettiva personale, civica, sociale e occupazionale), dicono che il tasso italiano di partecipazione al training continuo è dell’8,1%, nettamente sotto la media europea dove i paesi più virtuosi sono quelli nordici come la Svezia (29,2%), Finlandia (28,5%) e Danimarca (23,5%).
Per Joelle Gallesi, general manager della società di recruiting Hunters Group, nel nostro Paese il concetto di formazione permanente del personale è solo agli esordi e questo a causa del particolare tessuto industriale nazionale fatto prevalentemente da Pmi, che hanno esigenze diverse rispetto alle grandi imprese. Per il loro tipo di organizzazione, finora, hanno sempre avuto bisogno di personale specializzato in determinati ambiti, con una esperienza maturata nel loro settore di operatività. Per questo c’è sempre stata poca mobilità di lavoratori da un comparto all’altro.
Covid19, però, ha rivoluzionato tutto, spingendo anche questo tipo di realtà verso la digitalizzazione e l’innovazione per non soccombere. E questo, inevitabilmente, le ha portate ad aver bisogno di nuove competenze che spesso sono il frutto di una sana contaminazione di ruoli preesistenti.
Ma, per ora, l’esperienza in Italia continua a valere più della formazione. «In fase di recruiting per il piccolo medio imprenditore l’esperienza del candidato pesa per l’80%», assicura l’esperta. Del resto il mondo del business viaggia a velocità supersonica e la capacità di investire sulla formazione di un neo laureato o di un senior bisognoso di reskilling, resta ancora riservata a pochi.
Il panorama, infatti, cambia all’interno delle grandi multinazionali o delle aziende italiane internazionali che nel tempo si sono dotate di scuole di formazione e di programmi di coach in grado di fornire ai loro dipendenti gli strumenti necessari per poter potenziare le loro competenze e switcharle in ambiti diversi all’interno dell’azienda o all’esterno.
Lavoro: non sopravvalutare il cambiamento
Al di là delle particolarità del mercato nazionale del lavoro, resta ferma la necessità per tutti di formarsi, colmare le lacune delle proprie competenze per migliorare la personale spendibilità sul mercato del lavoro. Ma, come in tutte le cose, occorre razionalità e buon senso, che in questo caso specifico significa non sopravvalutare il cambiamento, come ha raccomandato in un recente convegno Luca Garavoglia, presidente del Gruppo Campari, perché questo ci porta spesso a prendere decisioni affrettate e inefficaci in diversi ambiti, compreso quello della formazione professionale.
Tradotto in pratica ciò significa che un percorso formativo, indipendentemente dall’età e dalla esperienza maturata, va scelto con calma per evitare di investire in maniera poco fruttuosa tempo e denaro. «Non è attraverso un corso di Industry 4.0 che troverò lavoro, ma attraverso la ‘ vendita’ delle mie competenze e l’utilizzo del mio network professionale e questo vale per i lavoratori di tutte le età», avverte Franco Faoro, presidente di S&A CHANGE , società di consulenza esperta in transizioni di carriera. Ovvio ci vuole anche una formazione di base completa, che comprenda un buon livello di inglese e di competenze digitali, ma poi è importante migliorare le skill necessarie per completare la nostra area professionale, dando rilievo anche alle competenze trasversali che stanno diventando sempre più importanti.
«Un corso di formazione deve perfezionare la mia esperienza professionale, colmare i miei gap. Nella scelta devo quindi puntare all’essenziale e questo significa avere chiaro in mente l’obiettivo che intendo raggiungere», precisa l’esperto, per il quale la condicio sine qua non per apprendere qualsiasi tipo di nozione, sia essa tecnica che trasversale, è l’umiltà. Senza umiltà non c’è apprendimento. E questa nessun corso la può insegnare a un manager, a neolaureato, a un lavoratore qualsiasi. «La modestia è la prima competenza a cui dobbiamo mirare se vogliamo continuare a imparare e a essere competitivi sul mercato del lavoro», chiosa Faoro. Insomma, meno master (anche perché a detta degli esperti in Italia sono ancora poco valutati), e più lavoro su sé stessi per far emergere le proprie competenze e allenare flessibilità, capacità di ripresa dopo un errore e di revisione delle nostre idee più radicate. La scommessa è aperta. A noi la volontà di vincerla.
→ Leggi l’articolo su Changes, il magazine del Gruppo Unipol
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