Il rapporto tra famiglia e manager si regge sul rispetto reciproco
Prima o poi, nella vita della family company, si pone l’annosa questione della prima managerializzazione. Un ostacolo psicologico, ancor prima che strategico: “Le aziende di proprietà familiare – dice Joelle Gallesi, Sales & Operation Director di Hunters Group, società di head hunting leader nella ricerca e selezione di personale specializzato – tendono spesso a ricoprire autonomamente tutte le figure apicali all’interno, questo soprattutto perché chi ha creato l’azienda vuole seguire da vicino tutti i processi e poter prendere direttamente le decisioni. E questo inevitabilmente rappresenta un problema quando, per qualunque motivo (crescita o decrescita, sviluppo/internazionalizzazione dell’impresa, cambio generazionale), c’è la necessità di inserire un manager esterno che possa ricoprire il ruolo di amministratore delegato o direttore generale”.
Eppure quello tra imprenditore e manager è un rapporto che – se ben gestito – permette all’azienda di crescere. Ma non tutti i manager sono adatti alla family company. E viceversa. «Negli ultimi anni sono cambiate le esigenze e c’è stata un’evoluzione da parte dell’imprenditore. Prima si cercavano più figure di temporary management, con un approccio all’inglese: la famiglia ha figli potenzialmente validi, inseriamo temporary manager che li accompagnino per un periodo lungo. E si faceva fatica a reperire candidati disponibili. Oggi, invece, non si cerca più la figura di fiducia, ma quella di competenza con esperienze specifiche. Si tratta di manager che spesso arrivano da multinazionali o competitor».
Ma la compatibilità, nella family company, è fondamentale (…)
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