Quando il lavoro c’è, ma mancano le competenze
Dal 2018 al 2022 la percentuale di imprese che domanda nuovo personale è raddoppiata, passando del 9,3% al 18,9%. Orientamento, incentivi e formazione i rimedi possibili
Dal 2018 al 2022 la percentuale di imprese che domanda nuovo personale è raddoppiata, passando del 9,3% al 18,9%. Nonostante questo sprint imprenditoriale resta sul campo il problema del disallineamento tra la domanda e l’offerta di lavoro soprattutto per alcuni tipi di professione: il 37% delle aziende cerca principalmente operai specializzati, ovvero tecnici specializzati dell’industria estrattiva, dell’edilizia e della manutenzione degli edifici, metalmeccanici specializzati e installatori e manutentori di attrezzature elettriche ed elettroniche. Ma sono carenti anche profili non qualificati: circa il 21% delle imprese che domanda nuovo personale è alla ricerca di facchini, addetti alle consegne, addetti alla pulizia dei veicoli, bidelli, braccianti agricoli, manovali o personale non qualificato addetto all’edilizia o alla manifattura. Sono alcune evidenze emerse nella nuova indagine Ril-Rilevazione imprese lavoro svolta dall’Inapp-Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche attraverso un questionario strutturato e rivolto a un campione di 30mila imprese italiane. La mancanza di competenze, l’assenza di candidati e i frequenti abbandoni, si riassumono in un fenomeno, il cosiddetto labour shortage che esiste in molti Paesi, ma è particolarmente pronunciato in Italia, specie con riferimento ai giovani e ad alcuni settori. «Si potrebbe affermare che in Italia l’offerta di lavoro presenta forti limiti rispetto alla domanda sia per mancanza di competenze adeguate sia per diffuse indisponibilità a svolgere certi lavori – spiega il professor Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp –. Sicuramente la sfida più difficile, anche dopo la pandemia e con l’emersione di nuovi fenomeni come le dimissioni legate al desiderio di una maggiore qualità della vita, è il matching tra domanda e offerta di lavoro, che richiede un radicale miglioramento dell`istruzione e della formazione tecnica professionale, ma anche da un lato una migliore disponibilità dei giovani verso mestieri considerati troppo faticosi o poco prestigiosi e dall’altro un miglioramento della qualità delle condizioni di alcune posizioni lavorative. Il potenziamento dei servizi di orientamento è di estrema importanza per risolvere tutte queste criticità». Molteplici sono gli interventi istituzionali che possono essere adottati per correggere il mismatch e le carenze riscontrate, interventi che debbono essere pensati e declinati in modo strutturale e per il lungo periodo. Tra gli strumenti utilizzati per favorire l’incontro fra domanda e offerta vi sono gli incentivi all’occupazione. Sebbene siano ancora relativamente poche le imprese che vi fanno ricorso (meno del 30%), il più utilizzato e sicuramente il più appropriato per risolvere le criticità è l’incentivo per l’assunzione con contratto di apprendistato: il 44% delle imprese vi fa ricorso. Si tratta di un contratto che oltre ad agevolazioni economiche, normative e contributive, prevede anche l’obbligo di formazione, formazione che può considerarsi specifica al tipo di impresa. Altri incentivi, quali la Decontribuzione Sud (utilizzato dal 29,4% delle imprese) e quello per l’assunzione dei Giovani under 36 (scelto dal 26,1% delle imprese.), pur agendo sul lato della domanda, hanno scarso impatto sulle criticità emergenti sul lato dell’offerta. «Se gli incentivi per favorire le assunzioni ci sono – ha concluso il presidente Fadda – ciò che va potenziato è senza dubbio il servizio di orientamento: i giovani avrebbero bisogno di essere accompagnati e sostenuti nella costruzione e nella realizzazione del loro progetto di vita, a partire dalle scelte dei percorsi di istruzione e di formazione professionale coerenti con i fabbisogni delle aziende e con l’emergere delle nuove professioni fino all’accompagnamento nella ricerca del lavoro».
Ecco come connettere domanda e offerta
Il mismatch è uno dei maggiori freni allo sviluppo economico dell’Italia. Molte ricerche di personale non sono andate a buon fine perché i professionisti sono introvabili o non sono in numero sufficiente per coprire tutte le posizioni vacanti, perché non hanno le competenze necessarie o perché, in alcuni casi, domanda e offerta non sono allineate. «In alcuni settori, come l’Ict e l’Energy – sottolinea Joelle Gallesi, Managing Director di Hunters Group – più della metà delle offerte di lavoro rimane aperta (si calcola che il tasso di chiusura sia inferiore al 47%) e questo rappresenta, senza dubbio, un grosso problema per lo sviluppo del business. Un problema che deve trovare una soluzione, magari anche guardando al di fuori dei confini nazionali e implementando, in maniera sempre più consistente e strutturata, politiche che permettano da un lato il rientro dei nostri migliori talenti e, dall’altro, rendano le assunzioni di talenti stranieri più semplici. L’international recruiting potrebbe essere la strada più facilmente percorribile, anche sfruttando le condizioni fiscali estremamente favorevoli che l’Italia offre a chi ha lavorato all’estero negli ultimi due anni». L’Italia – grazie all’agevolazione per i lavoratori rimpatriati – sta tornando a essere un Paese molto interessante, a livello professionale, sia per i lavoratori italiani che hanno vissuto all’estero, sia per i lavoratori stranieri che, in percentuale sempre crescente negli ultimi tempi, stanno pensando al nostro paese non solo per le attrazioni turistiche e culinarie, ma anche per una carriera di successo. E anche i numeri sembrano confermarlo. Secondo una recente indagine condotta da Hunters Group, infatti, sono cresciute del 10% le richieste di professionisti italiani che, dopo aver lavorato all’estero, hanno iniziato a considerare anche offerte provenienti da aziende del nostro Paese. Una situazione inimmaginabile fino a qualche anno fa ma che – soprattutto dopo la pandemia – ha iniziato a concretizzarsi e, di anno in anno, diventa sempre più diffusa. Grazie alle agevolazioni fiscali, confermate anche nella legge di Bilancio 2023, i rientri in Italia dall’estero nell’ultimo anno hanno coinvolto circa 19mila lavoratori e lavoratrici. Numeri decisamente in crescita rispetto agli anni passati, basti pensare che i rientri nel 2021 sono stati poco più di 14mila. Tuttavia, alcuni dei nostri migliori talenti decidono di lasciare il nostro Paese perché, soprattutto in alcuni settori, le nostre aziende – a livello retributivo – non reggono il confronto. Tra le figure professionali con maggiore possibilità di trovare un impiego stabile lontano dall’Italia ci sono i profili altamente qualificati dell’It, del Finance e dell’Energy. Un data scientist – il professionista che analizza ed elabora i dati – in Italia guadagna mediamente 42.500 euro lordi all’anno che diventano 70mila nel Regno Unito, 75mila in Germania e addirittura 143mila negli Stati Uniti. Solo in Spagna – se analizziamo i Paesi equiparabili al nostro – la retribuzione è inferiore, anche se di pochissimo (41mila euro). Lo stesso vale, per esempio, per chi sviluppa software: nel nostro Paese la retribuzione media lorda si attesta intorno ai 35mila euro, circa 54mila nel Regno Unito, 65mila in Germania e quasi 100mila negli Stati Uniti. Intanto Epicode, società di edu-tech, lancia Hiring Platform, una vera e propria community di talenti che le aziende potranno consultare gratuitamente per trovare figure con competenze tecnologiche. Permetterà a coloro che vi accederanno di svolgere ricerche attraverso filtri personalizzati, selezionando i profili sia in base al ruolo professionale che alle principali competenze di cui l’azienda ha maggiormente bisogno. Nel consultare i potenziali candidati, sarà possibile accedere a dati che permetteranno una profilazione precisa tra cui: hard e soft skill, valutazione dei colleghi con i quali ha lavorato, assessement comportamentale, potenziale di sviluppo e compatibilità con il team dell’azienda.
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